Attraverso l’impugnazione dell’atto impositivo, gli eredi hanno un comportamento rilevante ai fini dell’articolo 476 cc e, di conseguenza, la successiva rinuncia non produce effetti nel giudizio.
Il chiamato all’eredità che impugna l’avviso di accertamento relativo alla posizione fiscale del de cuius, non per eccepire la propria responsabilità ma per motivi di merito, realizza un atto di accettazione tacita dell’eredità incompatibile con una successiva eventuale rinuncia. Questo il principio stabilito dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 23989 del 29 ottobre 2020, che ha cassato la decisione della Commissione tributaria centrale che, confermando la sentenza di secondo grado, aveva escluso la responsabilità degli eredi che avevano prodotto in pendenza del giudizio di appello l’atto di rinuncia.
L’accettazione (espressa e tacita) dell’eredità
La decisione della Corte si fonda su orientamenti della giurisprudenza civile “ordinaria”, ma non ha precedenti specifici in materia tributaria.
Secondo la disciplina del codice civile in tema di successione, l’accettazione di eredità del (mero) chiamato all’eredità può essere tacita o espressa: la prima (articolo 475 cc) consiste in una dichiarazione formale, contenuta in un atto pubblico o in una scrittura privata, con cui si accetta l’eredità o si assume il titolo di erede; la seconda (articolo 476 cc) è rappresentata dal compimento, da parte del chiamato, di un atto che presuppone necessariamente la volontà di accettare l’eredità e che questi non avrebbe il diritto di compiere se non in qualità di erede. In tale secondo ambito rientrano, ad esempio, la riscossione dei canoni di locazione di un bene ereditario (Cassazione n. 2743/2014), la voltura di una concessione edilizia già richiesta dal de cuius (Cassazione n. 263/2013), il rilascio di procura a vendere beni ereditari (Cassazione n. 20699/2017) ed anche la proposizione di azioni giudiziarie “che travalicano il semplice mantenimento dello stato di fatto quale esistente al momento dell’apertura della successione, e che, quindi, il chiamato non avrebbe diritto di proporre se non presupponendo di voler far propri i diritti successori.” (Cassazione n. 10060/2018).
Non costituisce invece “accettazione tacita”, per rimanere in materia tributaria, la presentazione della denuncia di successione, in quanto trattasi di adempimento obbligatorio per il chiamato, a meno che questi non abbia rinunciato all’eredità informandone l’Amministrazione finanziaria secondo le modalità di cui all’articolo 28, comma 5, del Dlgs n. 346/90.
La decisione della Corte
Con la decisione in commento, ordinanza n. 23989 del 29 ottobre 2020, la Cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Ctc che aveva attribuito rilievo alla rinuncia all’eredità intervenuta nel corso del giudizio. Secondo i giudici di merito, poiché la rinuncia all’eredità è retroattiva (“chi rinunzia all’eredità è considerato come se non vi fosse mai stato chiamato”: così l’articolo 521 cc), l’intervenuta rinuncia impedisce la trasmissione agli eredi dell’obbligazione tributaria del de cuius.
Secondo la ricorrente, invece, attraverso l’impugnazione dell’avviso di accertamento per motivi di merito (cioè per vizi “intrinseci” dell’atto impositivo, e non per il fatto di essere stato notificato a soggetti non responsabili dei debiti), gli eredi avevano tenuto un comportamento rilevante ai fini dell’articolo 476 cc, con la conseguenza che la successiva rinuncia non avrebbe potuto produrre effetti nel giudizio in corso.
Ricordando che anche gli atti di mera gestione possono dar luogo ad accettazione tacita dell’eredità, la Cassazione ha condiviso la prospettazione del ricorso e lo ha accolto osservando che gli eredi, avendo contestato l’atto nel merito, già al momento in cui avevano compiuto la rinuncia dovevano considerarsi decaduti dalla relativa facoltà.
Come sottolinea la Corte, occorre distinguere tra – da un lato – la semplice accettazione della notifica di una citazione o di un ricorso (in materia tributaria, potrebbe trattarsi della notifica di un atto impositivo, o di un’impugnazione), o l’eccezione del solo difetto di legittimazione, e – dall’altro – l’impugnazione di un atto per contestarne la fondatezza.
Solo nella prima ipotesi potrà dirsi che il comportamento non è indice della volontà di accettare l’eredità, e la rinuncia potrà avere effetto ex tunc (cfr Cassazione n. 13639/2018, secondo cui la rinuncia può essere opposta anche nel giudizio avverso la cartella di pagamento che faccia seguito a un avviso di accertamento non impugnato).
In tal caso, spetterà all’Amministrazione finanziaria provare l’avvenuta accettazione dell’eredità, e quindi l’inoperatività della rinuncia che ne consegue; ad esempio, potrà essere dimostrato che i chiamati si sono immessi nel possesso dei beni ereditari.
Per concludere occorre tuttavia ricordare che la rinuncia non può privare i creditori dei propri diritti: in particolare, in ambito fiscale, si segnala l’articolo 49 del Dpr n. 602/73, che consente al concessionario (eventualmente su segnalazione dell’ente creditore: articolo 19, comma 4, Dlgs. n. 112/99) di promuovere azioni cautelari, esecutive e conservative nonché “ogni altra azione prevista dalle norme ordinarie”, tra cui, si deve ritenere, anche l’impugnazione della rinuncia all’eredità (articolo 524 cc). In particolare, quest’ultima azione, che si prescrive in cinque anni dalla rinuncia (termine che deve essere coniugato con quello decennale per l’accettazione, di cui all’articolo 480 cc: cfr Cassazione n. 15664/2020), consente ai creditori che da tale rinuncia abbiano subito un danno di “farsi autorizzare ad accettare l’eredità in nome e luogo del rinunziante, al solo scopo di soddisfarsi sui beni ereditari fino alla concorrenza dei loro crediti”.
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